Nuove aggiunte e riflessioni sul luogo delle virtù

 

 

LORENZO L. BORGIA & MONICA LANFREDINI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 01 febbraio 2020.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE]

 

L’interesse neuroscientifico per lo studio degli elementi che rivelano la radice antropologica delle virtù nel rapporto con i luoghi di senso dell’esperienza umana è facilmente comprensibile. Le virtù rappresentano una sintesi culturale di concezione morale ed esercizio cognitivo: luoghi astratti che danno forma all’agire mentale e al profilo della sua reattività evocativa. Anche se fino al recente passato la ricerca delle basi neurali della nostra psiche si è limitata all’esplorazione comparata dei processi elementari sottostanti le emozioni, gli affetti e i compiti cognitivi più semplici, oggi si sente il bisogno di affrontare lo studio analitico di aspetti tipicamente umani dell’esperienza psichica, quali la formazione di modelli astratti del mondo e dell’uomo sulla base di paradigmi morali, religiosi, filosofici e politici in grado di modellare l’affettività attraverso strumenti di linguaggio-pensiero (logos).

È evidente che siamo in questo campo ancora nella fase preliminare di raccolta e selezione conoscitiva del materiale necessario alla definizione degli oggetti di ricerca; tuttavia, è altrettanto evidente l’utilità di affrontare questo lavoro – anche a fronte dell’impossibilità di chiedere a modelli murini risposte ai nostri quesiti – per definire elementi esplorabili con gli attuali metodi di studio del cervello umano in vivo. È certo che, assumere stabilmente un atteggiamento mentale ispirato a valori astratti che condizionano il comportamento, ha conseguenze cha vanno dal profilo di espressione genica all’assetto delle principali reti cerebrali, ed è altrettanto certo che la distanza fra questi elementi biologici e una narrazione storica appare attualmente incolmabile; ma, considerando che anche la strada per il più lungo dei viaggi comincia da un semplice primo passo, riteniamo utile e opportuno levare il piede e avviarci, sostenuti dall’ottimismo della speranza.

Proseguendo le riflessioni sul saggio “Il tempo e il luogo delle virtù”[1], il nostro presidente ha rilevato che lo sviluppo degli elementi nei quali Monica Lanfredini ha rintracciato alcune radici dell’identità culturale europea avviene in un’epoca che segue un lungo periodo in cui i cristiani si erano impegnati nella realizzazione pura e integrale di un ideale di vita evangelico, in aperto contrasto con le logiche del “mondo”. L’identità del soggetto cristiano, che si compie in quella dello stesso Figlio di Dio, si staglia nitida nei secoli delle persecuzioni, in quanto rinvia ad un ordine celeste da cui proviene ogni virtù ed emerge per contrasto quale elemento estraneo che genera odio: “…poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia” (Gv 15, 19).

La cristianizzazione dell’Europa, anche se rappresenta nell’estensione della sua totalità più un processo culturale che di conversione spirituale di massa – e dunque lontano dalla realizzazione del Regno dei Cieli sulla terra – non consente più ai seguaci del monoteismo messianico di interpretare solo il ruolo sociale di ospiti indesiderati o profeti inascoltati, ma richiede un’assunzione di responsabilità nel tentativo di edificare una realtà ispirata ai nuovi ideali. Proprio gli eventi originati da questa partecipazione attiva dei cristiani europei alla costituzione di un nuovo mondo istituzionale e privato, sono stati oggetto della discussione del presidente ma, prima di riferire su questi contenuti, si richiama alla memoria il modo in cui avevamo rapportato questo stato di cose al luogo della città:

Gli storici concordano sulla connotazione positiva della città nell’immaginario collettivo greco di epoca aurea, riflesso nella concezione spesso idealizzata del luogo delle leggi o terra dei padri nelle parole di filosofi e poeti greci. Nella transizione romana, pur essendo implicita, l’immagine positiva della dimensione urbana è conservata. Si può supporre che alla coscienza di quei popoli non emergesse nel vissuto quotidiano l’organizzazione funzionale della città in quanto tale, ossia come oggetto di riflessione consapevole, perché lo spazio cittadino era costantemente implicato quale ambiente quasi naturale, tanto degli atti e dei gesti della vita personale, quanto dei fatti della storia[2].

È l’irrompere della cultura giudaico-cristiana sulla scena della consapevolezza collettiva a porre in questione il distanziamento del soggetto dalla città mediante un giudizio morale complessivo. La conquista cristiana delle coscienze, dopo trecento anni di persecuzione, veicola nella realtà greco-romana la dicotomia fra le città perverse quali Sodoma, Gomorra, Babilonia e la città santa, ossia Gerusalemme. In particolare, il soggetto cristiano che si costituisce in antitesi con il mondo – inteso in senso giovanneo[3] – mette in crisi il valore assoluto dell’appartenenza territoriale del mondo classico, esemplarmente espresso dall’onore nell’essere cittadino ateniese, spartano o romano. Un attributo di identità che derivava direttamente dal guscio protettivo politico-militare della polis. La cultura classica aveva così sublimato l’istinto biologico di appartenenza territoriale nell’orgoglio di condivisione delle glorie della storia della nazione urbana concepita come stato di diritto.

Il pensiero cristiano, il cui potenziale eversivo dato dalla sottomissione a Dio e non all’imperatore aveva indotto le persecuzioni, svincolava la morale sociale dal luogo abituale della vita (ethos) e dal perimetro delle leggi (civitas) concependo l’intero genere umano quale ambito entro cui esprimere l’oblazione della propria vita e la Gerusalemme celeste (Civitas Dei) o Regno dei Cieli quale patria futura dopo la morte, rappresentando, nel giudizio dell’ateo, un’aspirazione idealistica assoluta[4].

 

 

 

Lo stile della testimonianza votata al martirio dei primi tre secoli dell’epoca cristiana era in parte sopravvissuto ma, da Costantino in poi, con l’estendersi progressivo delle conversioni che portano i seguaci di Cristo dallo status di minoranza perseguitata a quello di maggioranza legiferante, si tentano vie di coesistenza con il materialismo e il cinismo utilitaristico di coloro che esercitavano influenti ruoli economici e politici. Oltre a proteggere e spesso sostenere l’autoesclusione dal mondo scelta dai religiosi di clausura, si supporta lo sviluppo di grandi istituzioni religiose che costituiscono centri di arte e cultura, con azione sociale e valenza economica per il territorio circostante, e si assiste alla fondazione di ordini religiosi in cui dei cavalieri, per amare il prossimo e soccorrerlo nella malattia e nel bisogno, portano la spada al fianco. Come nel caso dei Cavalieri Ospitalieri, ordine fondato nel 1048, reso sovrano da Papa Pasquale II il 15 febbraio 1113 e poi divenuto celebre nei secoli successivi come Sovrano Militare Ordine di Malta.

Le contraddizioni fra princìpi cristiani e comportamenti, nei compromessi volontari e involontari indotti da ragioni storiche e circostanze di vita, sono innumerevoli e in molti casi irrisolvibili e simili a quelle delle epoche successive e della realtà attuale.

Ma l’aspetto importante da sottolineare è l’avvio di un processo che tenta di tradurre nella vita quotidiana i valori apparentemente collocati dai primi cristiani nella sfera celeste e nella dimensione della santità. Ecco come Jacques Le Goff si esprime in proposito:

“Eppure il contemptus mundi rifluì dinanzi ad una valorizzazione generale del mondo terreno che fece discendere i valori dal cielo sulla terra. Non che il fervore religioso si fosse indebolito; ma anziché essere confinati al cielo, dove l’uomo poteva attingerli solamente dopo morto guadagnandosi la salvezza, i valori cominciavano a manifestare la loro presenza quaggiù, permettendo all’uomo di costruire la sua salvezza non più contro, ma attraverso il mondo”[5].

Nelle intenzioni degli innovatori non c’era la realizzazione di compromessi, ma la promozione di un cambiamento connotativo nella coscienza collettiva: il corpo non era più considerato solo una fonte di peccato, ma poteva essere ritenuto un mezzo per servire il prossimo e fare la volontà divina; il lavoro era accostato all’attività di Dio nella creazione; il tempo, da esclusiva dimensione del volere celeste, era visto come la durata delle possibilità concesse all’uomo di salvarsi; la scienza ritornava ad essere, come nella sapienza di Salomone, un mezzo per conoscere e dominare le insidie del mondo materiale e umano per il corpo e per l’anima; il potere politico poteva essere giustificato in vista del bene comune; il gioco, l’ozio e persino qualche forma di piacere lecito erano ammessi in misura moderata, se finalizzati al recupero di forze ed energie profuse nel lavoro.

La scolastica ebbe un ruolo importante in questo cambiamento che portava dal manicheismo del bene e del male, con dicotomie rigide e assolute, all’esercizio della valutazione caso per caso secondo criteri di saggezza e misura, tanto cari alla filosofia della Grecia antica. Infatti, la scolastica si adoperò nel definire le condizioni di liceità delle attività umane secondo i principi evangelici, non intesi in una letteralità formale, ma applicati nella sostanza del loro significato, cum grano salis, alle realtà contingenti.

Una delle grandi differenze fra l’uomo greco-romano e l’uomo medievale consiste nell’assenza in quest’ultimo di un’aurea mediocritas: nel mondo antico il cittadino libero e il liberto sono padroni della propria vita e possono scegliere, secondo le proprie aspirazioni, ambizioni e capacità, se seguire un percorso di acquisizione di abilità virtuose o accontentarsi di soddisfare i propri bisogni e le proprie esigenze economiche; il cristiano deve costantemente agire per il bene secondo il massimo grado della virtù d’amore oblativo, non cadendo in peccati di omissione o di pensiero, che al pari delle azioni proibite possono condurre all’inferno.

Il peccato, ossia l’assenza di virtù, non è un atto contro la legge che lede materialmente o moralmente un altro cittadino o lo stato, come nel caso dei reati nel mondo antico, ma è primariamente uno stato psichico e una responsabilità della coscienza: il luogo del peccato è proprio nella dimensione mentale in cui l’intelligenza consapevole del soggetto incontra Dio. L’onnipotenza del Creatore gli consente di essere dentro la coscienza di ciascuno di noi e vedere nel segreto[6], tanto il bene quanto il male, e giudicare secondo il criterio che il male è già nell’assenza di bene. Il demonio, non inteso come una semplice personificazione del male ma come una potenza che agisce ugualmente attraverso la coscienza delle persone, influenzando la vita dei singoli e la storia dell’umanità, sembra avvantaggiato nel suo compito di indurre al peccato in una società fortemente militarizzata, fortificata e armata, che impiega quotidianamente le armi per regolare i rapporti con il prossimo.

L’arte e le lettere medievali ci rivelano che l’ossessione per il demonio esprime spesso il tormento depressivo dell’ineluttabilità del male, nella forma disperata e soggettiva della debolezza che non riesce a resistere alle tentazioni o nella forma oggettiva, soverchiante e improvvisa delle calamità naturali che possono condurre al fuoco eterno anime colte in stato di peccato.

I prelati e le gerarchie ecclesiali si rendono conto che il credente è costantemente angosciato dal rischio, dopo una vita di rinunce e penitenze, di finire per una singola condotta peccaminosa alla pena del supplizio eterno nel luogo dove l’anima straziata non muore e il fuoco non si estingue. L’interpretazione delle Scritture che porta, fin dal 1100, a postulare l’esistenza del Purgatorio quale luogo in cui poter completare l’espiazione dei peccati dopo la morte e infine giungere all’unione con Dio[7], aveva in parte ridotto il terrore della perdizione, ma l’incapacità di evitare il peccato o di peccare senza rendersene conto continuava a costituire una minaccia.

La Chiesa elabora, allora, una speciale pedagogia a scopo preventivo: avendo compreso che il peccato si radica in una forza – che ancora non sapevano attribuire a memorie attive di “stati funzionali a ricompensa” del cervello – ma che convenzionalmente già si chiamava vizio, definisce sette vizi capitali da combattere sul nascere: superbia, avarizia, ira, invidia, lussuria, gola e accidia.

Inizialmente questi vizi sono descritti come stati dello spirito prossimi al peccato, condizioni alimentate dal potere di seduzione di Satana sul cuore dell’uomo, in grado di indurre a contravvenire agli espliciti divieti dei dieci comandamenti mosaici o al “comandamento nuovo” che li include tutti[8]. Ad esempio, la lussuria, ossia l’indulgere nello stato mentale di desiderio erotico, può far commettere adulterio o desiderare la donna d’altri; l’avarizia e la gola possono indurre a soddisfare desideri del superfluo, trascurando i poveri nel loro bisogno del necessario; l’ira può indurre all’omicidio materiale o simbolico nell’odio degli altri; l’invidia può portare a desiderare gli oggetti o la condizione di vita altrui; la superbia può portare a disobbedienza, ossia a non sottomettersi a Dio, come vuole il primo comandamento; stesso peccato può essere indotto dall’accidia, l’oziosa pigrizia all’origine delle maggiori omissioni.

Col tempo, però, i vizi capitali sono considerati essi stessi peccato, tanto da passare alla storia come i sette peccati mortali.

Ma sono proprio le ragioni che determinano che qualcosa costituisca peccato ad essere oggetto di una profonda analisi teologica, che prende avvio dall’innocenza degli ignoranti e dalla colpevolezza di coloro che hanno conosciuto la rivelazione, di cui si parla nel Vangelo. Alcuni ragionamenti, che saranno in parte ripresi nel corso della storia dai giuristi che hanno definito i requisiti di imputabilità dei codici penali, escludono definitivamente la colpa nelle persone incapaci di intendere e volere e per danni procurati accidentalmente in condizioni di completa involontarietà. Perché sussista il peccato è necessaria l’intenzione al male del peccatore, ossia una volontà in contrasto con quella di Dio. In proposito, così si esprime Le Goff: “Una grande svolta nella storia delle idee, dei valori e della mentalità ha luogo nella cristianità del XII-XIII secolo. Una nuova concezione del peccato, commisurato più all’intenzione del peccatore che ai suoi atti, conduce a una revisione delle pratiche della confessione e alla ricerca dell’ammissione di colpa[9].

Soprattutto, la Chiesa comprende la necessità di assistere i fedeli nei problemi morali e di guidarli nell’esame di coscienza. La confessione, che fino ad allora era consistita nel proclamare ad alta voce dinanzi all’assemblea le proprie trasgressioni, entra nel segreto, perché non sono i fratelli a dover giudicare, ma il Testimone di ogni coscienza, ossia il Padre che vede e sente nel segreto, per il tramite dei sacerdoti, eredi degli Apostoli, ai quali Gesù Cristo aveva concesso il potere di perdonare i peccati. Come l’adultera, il centurione, Zaccheo e tanti altri menzionati nei quatto vangeli, ogni peccatore pentito poteva essere perdonato e ritornare nella Grazia divina.

Nel 1215 il IV Concilio Lateranense stabilisce l’obbligo di precetto per tutti i battezzati di una dichiarazione dei propri peccati almeno una volta l’anno, nella forma della confessione individuale e segreta, detta «a orecchio», rivolta a un confessore che, a sua volta, si è sottoposto a un esame di coscienza ed è vincolato dall’obbligo assoluto di non rivelare quanto ha appreso nella circostanza sacramentale[10].

Che le prime comunità cristiane in terra italica e, più in generale, nell’area del Mediterraneo e dell’Europa continentale siano state luogo di virtù morali sembra un fatto acclarato e confermato dall’opinione altissima che ne aveva Galeno di Pergamo, il celebre medico agnostico che scrisse della sua ammirazione e del suo stupore nell’incontrare e conoscere persone in grado di interpretare quotidianamente valori di oblazione assoluta, quali erano i seguaci del Messia ebraico risorto dai morti. Che la Chiesa medievale non sia stata un luogo di virtù sempre e in ogni suo membro e istituzione, sembra altrettanto indiscutibile, se solo si considerano i travagli secolari, i conflitti di potere interni, il sorgere di antipapi, i delitti dell’Inquisizione, la simonia, la compravendita di indulgenze e i tanti episodi poco edificanti tramandati dalla storia. Tuttavia, le componenti di sana e profonda spiritualità, anche nei periodi più bui, continuano a sviluppare una cultura dei valori contribuendo, solo dove e quando riescono ad arrivare, allo sviluppo della civiltà.

La complicatissima realtà medievale, fatta di tante isole giustapposte ma spesso profondamente diverse tra loro, tanto da rendere arduo se non impossibile un giudizio complessivo, non conobbe l’idea di progresso nel senso moderno del vocabolo. Quando Francesco Petrarca, la cui statura culturale è cresciuta agli occhi degli storici con la scoperta di manoscritti che rivelano la sua identità di filosofo, coniò con un’accezione dispregiativa il termine “Medioevo” per il suo tempo, espresse la consapevolezza storica di vivere in un’epoca di complessiva involuzione e stasi, e lasciò in eredità questo severo giudizio che ancora oggi si apprende sui banchi di scuola. In realtà, già da decenni i medievalisti hanno desunto, dall’esame accurato dei documenti e dall’interpretazione non preconcetta di una miriade di fatti storici, che tutto il Medioevo può essere descritto come una serie di Rinascimenti, spesso costituiti da locali sviluppi di genio e creatività occultati sotto la maschera di un ritorno all’antichità classica, e poi rientrati nell’inerzia conformistica di costumi arretrati.

Anche nella diacronia, alcuni storici parlano di Rinascimento Carolingio (VIII-IX secolo), Rinascimento del X secolo, Rinascimento del XII secolo e, infine, del «grande» Rinascimento che nasce in Firenze, trovando piena espressione nel 1492, anno in cui muore Lorenzo de’ Medici, Colombo scopre l’America e convenzionalmente ha inizio l’Età Moderna. In tutto il mondo, il «vero» Rinascimento è indissolubilmente legato ai nomi di Leonardo da Vinci, Michelangelo Buonarroti e Raffaello Sanzio, ineguagliabili artisti che, adoperando il principale mezzo dell’epoca di comunicazione di massa legato all’immagine, ossia la pittura, rappresentano in modo sublime i valori cristiani, in una forma grandiosa che ancora oggi suscita ammirazione, stupore e piacere estetico.

Ma questo straordinario periodo, che per dinamismo artistico e culturale si contrappone nettamente all’Era di mezzo, secondo Jacques Le Goff in Italia si annuncia già nel Duecento e vi appartiene Petrarca a metà del Trecento.

Le immagini rinascimentali possono essere considerate una sorta di espressione trionfale di quella che – secondo la maggioranza dei medievalisti – era l’ossessione per il simbolico che aveva attraversato tutto il Medioevo, soprattutto a motivo di una vita concepita in funzione di un al di là che poteva entrare nell’attualità fenomenica solo nella forma dei simboli, ma anche perché l’evento soprannaturale che aveva segnato l’ingresso di Dio nella storia umana, attraverso l’incarnazione di Gesù Cristo, apparteneva a un lontano passato che richiedeva di essere rappresentato.

Dunque, se il luogo della virtù viene astratto dalla realtà materiale nella concezione cristiana, come avevamo osservato in precedenza citando la risposta di Gesù alla Samaritana che chiede se il luogo di elezione della preghiera debba essere il monte o il tempio[11], si può notare che non tanto diversa è la sorte del tempo della virtù, perché non deriva da una contingenza attuale, ma sembra dipendere dalla conservazione del passato, sia nella tradizione delle scritture sacre, sia nei riti. Osserva Le Goff: “Il cristianesimo era una religione della memoria: il suo atto liturgico centrale era la ripetizione dell’Ultima Cena, il sacrificio che viene rinnovato «in memoria» del Cristo”[12].

Ma questa osservazione non deve ingannarci circa la reale portata del vissuto spirituale, perché il cristianesimo è un ritorno alla sostanza della fede in opposizione al formalismo rituale farisaico: “Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura”[13], spiega San Paolo, secondo quella ratio che pervade tutto il Vangelo e sconfessa il formalismo ottuso che portava a proibire di sabato anche la guarigione degli ammalati. L’essenza della vita cristiana non è nella memoria del rito – che serve a mantenere vive le ragioni della fede – ma nell’attualità costantemente rinnovata della conversione, dalla quale origina l’uomo nuovo, ossia colui che risponde alla chiamata del Redentore, che lo ha riscattato a prezzo del suo sangue, e compie le opere di misericordia, in base alle quali sarà giudicato, nel fervore delle tre virtù teologali, ossia fede, speranza e carità; l’ultima delle quali, non intrapsichica, assume un ruolo decisivo per la salvezza, compiendo il valore delle altre due. Infatti, “senza la carità – dice San Paolo – sarei bronzo sonante”.

Dunque, la virtù cristiana, anche se si fonda sulla rimemorazione nel presente del sacrificio di Cristo per la redenzione di tutti, non è una questione di memoria ma di atti concreti che materializzano la speranza[14].

 

Gli autori del testo ringraziano il presidente Giuseppe Perrella che ha espresso in maniera dettagliata e documentata quanto è esposto in sintesi nel presente scritto, e invitano alla lettura degli articoli di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Lorenzo L. Borgia & Monica Lanfredini

BM&L-01 febbraio 2020

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Pubblicato nelle “Note e Notizie” del 14 dicembre 2019 e integrato da alcuni rilevanti riferimenti storici nelle “Notule” pubblicate con le “Note e Notizie” del 25 gennaio 2020.

[2] Non meno di quanto un bambino dia per scontata la propria casa nell’organizzazione della vita familiare.

[3] È il “mondo” inteso come la comunità umana non sottomessa a Dio, che idolatra il profitto e il vantaggio egoistico, e sviluppa strutture gerarchiche basate sul valore del denaro e su logiche di potere dell’uomo sull’uomo. Come si legge nel Vangelo, il principe di questo mondo è Satana.

[4] Note e Notizie 14-12-19 Il tempo e il luogo delle virtù.

[5] Jacques Le Goff, Il Medioevo – Alle origini dell’identità europea, p. 111, Editori Laterza, Roma-Bari 2002. I corsivi nel testo sono di Le Goff.

[6] “… Il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.” (Mt 6, 4).

[7] Cfr. Jacques Le Goff, La nascita del Purgatorio, Einaudi, Torino 2006. Lo storico francese, che fa risalire la concezione alla cultura sviluppata in seno alla borghesia mercantile, sostiene che il cambiamento della topologia dell’aldilà abbia rappresentato una vera rivoluzione mentale collettiva, che cambiò la vita dei cittadini europei.

[8] “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv 15, 12).

[9] Jacques Le Goff, Il Medioevo – Alle origini dell’identità europea, p. 110, Editori Laterza, Roma-Bari 2002. I corsivi nel testo sono di Le Goff.

 

[10] A questo lodevole progresso nell’ispirazione spirituale della dottrina, che ha conseguenza nella ricerca della confessione nella pratica giudiziaria, fece seguito una “patologia del sistema” con l’istituzione poco cristiana (solo Cristo è giudice dell’uomo) del Tribunale dell’Inquisizione, allo scopo di combattere l’eresia. Come è noto i membri di tale tribunale fecero ricorso alla tortura, uno “strumento di Satana”, per ottenere le confessioni.

[11] “…Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità…” (Gv. 4), ossia: non è importante il luogo materiale, ma la sede psichica (spirito) di un’adorazione sentita e sincera (verità) e non formalmente rituale.

[12] Jacques Le Goff, Il Medioevo – Alle origini dell’identità europea, p. 108.

[13] Gal 6, 15.

[14] Secondo la definizione di fede cara al nostro presidente.