Nuove aggiunte e riflessioni sul luogo delle virtù
LORENZO L. BORGIA & MONICA LANFREDINI
NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 01 febbraio 2020.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia).
Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società,
la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste
e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE]
L’interesse neuroscientifico per lo studio degli
elementi che rivelano la radice antropologica delle virtù nel rapporto
con i luoghi di senso dell’esperienza umana è facilmente comprensibile. Le
virtù rappresentano una sintesi culturale di concezione morale ed esercizio
cognitivo: luoghi astratti che danno forma all’agire mentale e al profilo della
sua reattività evocativa. Anche se fino al recente passato la ricerca delle
basi neurali della nostra psiche si è limitata all’esplorazione comparata dei
processi elementari sottostanti le emozioni, gli affetti e i compiti cognitivi
più semplici, oggi si sente il bisogno di affrontare lo studio analitico di
aspetti tipicamente umani dell’esperienza psichica, quali la formazione di modelli
astratti del mondo e dell’uomo sulla base di paradigmi morali, religiosi,
filosofici e politici in grado di modellare l’affettività attraverso strumenti
di linguaggio-pensiero (logos).
È evidente che siamo in questo campo ancora nella fase
preliminare di raccolta e selezione conoscitiva del materiale necessario alla
definizione degli oggetti di ricerca; tuttavia, è altrettanto evidente l’utilità
di affrontare questo lavoro – anche a fronte dell’impossibilità di chiedere a
modelli murini risposte ai nostri quesiti – per definire elementi esplorabili
con gli attuali metodi di studio del cervello umano in vivo. È certo che,
assumere stabilmente un atteggiamento mentale ispirato a valori astratti che
condizionano il comportamento, ha conseguenze cha vanno dal profilo di
espressione genica all’assetto delle principali reti cerebrali, ed è
altrettanto certo che la distanza fra questi elementi biologici e una
narrazione storica appare attualmente incolmabile; ma, considerando che anche
la strada per il più lungo dei viaggi comincia da un semplice primo passo,
riteniamo utile e opportuno levare il piede e avviarci, sostenuti dall’ottimismo
della speranza.
Proseguendo le riflessioni
sul saggio “Il tempo e il luogo delle virtù”[1], il nostro presidente ha rilevato che lo sviluppo degli elementi nei quali
Monica Lanfredini ha rintracciato alcune radici dell’identità culturale europea
avviene in un’epoca che segue un lungo periodo in cui i cristiani si erano
impegnati nella realizzazione pura e integrale di un ideale di vita evangelico,
in aperto contrasto con le logiche del “mondo”. L’identità del soggetto cristiano,
che si compie in quella dello stesso Figlio di Dio, si staglia nitida nei
secoli delle persecuzioni, in quanto rinvia ad un ordine celeste da cui
proviene ogni virtù ed emerge per contrasto quale elemento estraneo che genera
odio: “…poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per
questo il mondo vi odia” (Gv 15, 19).
La cristianizzazione dell’Europa,
anche se rappresenta nell’estensione della sua totalità più un processo culturale
che di conversione spirituale di massa – e dunque lontano dalla realizzazione
del Regno dei Cieli sulla terra – non consente più ai seguaci del monoteismo
messianico di interpretare solo il ruolo sociale di ospiti indesiderati o
profeti inascoltati, ma richiede un’assunzione di responsabilità nel tentativo
di edificare una realtà ispirata ai nuovi ideali. Proprio gli eventi originati
da questa partecipazione attiva dei cristiani europei alla costituzione di un
nuovo mondo istituzionale e privato, sono stati oggetto della discussione del
presidente ma, prima di riferire su questi contenuti, si richiama alla memoria il
modo in cui avevamo rapportato questo stato di cose al luogo della città:
“Gli storici concordano
sulla connotazione positiva della città nell’immaginario collettivo greco di
epoca aurea, riflesso nella concezione spesso idealizzata del luogo delle
leggi o terra dei padri nelle parole di filosofi e poeti greci.
Nella transizione romana, pur essendo implicita, l’immagine positiva della
dimensione urbana è conservata. Si può supporre che alla coscienza di quei popoli
non emergesse nel vissuto quotidiano l’organizzazione funzionale della città in
quanto tale, ossia come oggetto di riflessione consapevole, perché lo spazio
cittadino era costantemente implicato quale ambiente quasi naturale, tanto
degli atti e dei gesti della vita personale, quanto dei fatti della storia[2].
È l’irrompere della cultura giudaico-cristiana sulla
scena della consapevolezza collettiva a porre in questione il distanziamento
del soggetto dalla città mediante un giudizio morale complessivo. La conquista
cristiana delle coscienze, dopo trecento anni di persecuzione, veicola nella
realtà greco-romana la dicotomia fra le città perverse quali Sodoma, Gomorra, Babilonia
e la città santa, ossia Gerusalemme. In particolare, il soggetto cristiano che
si costituisce in antitesi con il mondo – inteso in senso giovanneo[3] – mette in
crisi il valore assoluto dell’appartenenza territoriale del mondo classico,
esemplarmente espresso dall’onore nell’essere cittadino ateniese, spartano o
romano. Un attributo di identità che derivava direttamente dal guscio
protettivo politico-militare della polis. La cultura classica aveva così
sublimato l’istinto biologico di appartenenza territoriale nell’orgoglio di
condivisione delle glorie della storia della nazione urbana concepita come stato
di diritto.
Il pensiero cristiano, il cui potenziale eversivo dato
dalla sottomissione a Dio e non all’imperatore aveva indotto le persecuzioni,
svincolava la morale sociale dal luogo abituale della vita (ethos) e dal
perimetro delle leggi (civitas) concependo l’intero genere umano quale
ambito entro cui esprimere l’oblazione della propria vita e la Gerusalemme
celeste (Civitas Dei) o Regno dei Cieli quale patria futura dopo la
morte, rappresentando, nel giudizio dell’ateo, un’aspirazione idealistica
assoluta”[4].
Lo stile della testimonianza
votata al martirio dei primi tre secoli dell’epoca cristiana era in parte sopravvissuto
ma, da Costantino in poi, con l’estendersi progressivo delle conversioni che
portano i seguaci di Cristo dallo status di minoranza perseguitata a quello di
maggioranza legiferante, si tentano vie di coesistenza con il materialismo e il
cinismo utilitaristico di coloro che esercitavano influenti ruoli economici e
politici. Oltre a proteggere e spesso sostenere l’autoesclusione dal mondo
scelta dai religiosi di clausura, si supporta lo sviluppo di grandi istituzioni
religiose che costituiscono centri di arte e cultura, con azione sociale e
valenza economica per il territorio circostante, e si assiste alla fondazione di
ordini religiosi in cui dei cavalieri, per amare il prossimo e soccorrerlo nella
malattia e nel bisogno, portano la spada al fianco. Come nel caso dei Cavalieri
Ospitalieri, ordine fondato nel 1048, reso sovrano da Papa Pasquale II il 15
febbraio 1113 e poi divenuto celebre nei secoli successivi come Sovrano
Militare Ordine di Malta.
Le contraddizioni fra princìpi
cristiani e comportamenti, nei compromessi volontari e involontari indotti da
ragioni storiche e circostanze di vita, sono innumerevoli e in molti casi irrisolvibili
e simili a quelle delle epoche successive e della realtà attuale.
Ma l’aspetto importante da
sottolineare è l’avvio di un processo che tenta di tradurre nella vita
quotidiana i valori apparentemente collocati dai primi cristiani nella sfera celeste
e nella dimensione della santità. Ecco come Jacques Le Goff si esprime in
proposito:
“Eppure il contemptus
mundi rifluì dinanzi ad una valorizzazione generale del mondo terreno che
fece discendere i valori dal cielo sulla terra. Non che il fervore
religioso si fosse indebolito; ma anziché essere confinati al cielo, dove l’uomo
poteva attingerli solamente dopo morto guadagnandosi la salvezza, i valori
cominciavano a manifestare la loro presenza quaggiù, permettendo all’uomo di
costruire la sua salvezza non più contro, ma attraverso il mondo”[5].
Nelle intenzioni degli
innovatori non c’era la realizzazione di compromessi, ma la promozione di un
cambiamento connotativo nella coscienza collettiva: il corpo non era più
considerato solo una fonte di peccato, ma poteva essere ritenuto un mezzo per servire
il prossimo e fare la volontà divina; il lavoro era accostato all’attività
di Dio nella creazione; il tempo, da esclusiva dimensione del volere
celeste, era visto come la durata delle possibilità concesse all’uomo di
salvarsi; la scienza ritornava ad essere, come nella sapienza di
Salomone, un mezzo per conoscere e dominare le insidie del mondo materiale e
umano per il corpo e per l’anima; il potere politico poteva essere giustificato
in vista del bene comune; il gioco, l’ozio e persino qualche
forma di piacere lecito erano ammessi in misura moderata, se finalizzati
al recupero di forze ed energie profuse nel lavoro.
La scolastica ebbe un
ruolo importante in questo cambiamento che portava dal manicheismo del bene e
del male, con dicotomie rigide e assolute, all’esercizio della valutazione caso
per caso secondo criteri di saggezza e misura, tanto cari alla filosofia della
Grecia antica. Infatti, la scolastica si adoperò nel definire le condizioni di
liceità delle attività umane secondo i principi evangelici, non intesi in una
letteralità formale, ma applicati nella sostanza del loro significato, cum
grano salis, alle realtà contingenti.
Una delle grandi differenze
fra l’uomo greco-romano e l’uomo medievale consiste nell’assenza in quest’ultimo
di un’aurea mediocritas: nel mondo antico il cittadino libero e il liberto
sono padroni della propria vita e possono scegliere, secondo le proprie
aspirazioni, ambizioni e capacità, se seguire un percorso di acquisizione di
abilità virtuose o accontentarsi di soddisfare i propri bisogni e le proprie
esigenze economiche; il cristiano deve costantemente agire per il bene
secondo il massimo grado della virtù d’amore oblativo, non cadendo in peccati
di omissione o di pensiero, che al pari delle azioni proibite possono condurre
all’inferno.
Il peccato, ossia l’assenza
di virtù, non è un atto contro la legge che lede materialmente o moralmente un
altro cittadino o lo stato, come nel caso dei reati nel mondo antico, ma è primariamente
uno stato psichico e una responsabilità della coscienza: il luogo
del peccato è proprio nella dimensione mentale in cui l’intelligenza
consapevole del soggetto incontra Dio. L’onnipotenza del Creatore gli consente
di essere dentro la coscienza di ciascuno di noi e vedere nel segreto[6], tanto il bene quanto il male, e giudicare secondo il criterio che il
male è già nell’assenza di bene. Il demonio, non inteso come una semplice
personificazione del male ma come una potenza che agisce ugualmente attraverso
la coscienza delle persone, influenzando la vita dei singoli e la storia dell’umanità,
sembra avvantaggiato nel suo compito di indurre al peccato in una società
fortemente militarizzata, fortificata e armata, che impiega quotidianamente le
armi per regolare i rapporti con il prossimo.
L’arte e le lettere
medievali ci rivelano che l’ossessione per il demonio esprime spesso il
tormento depressivo dell’ineluttabilità del male, nella forma disperata e
soggettiva della debolezza che non riesce a resistere alle tentazioni o nella
forma oggettiva, soverchiante e improvvisa delle calamità naturali che possono condurre
al fuoco eterno anime colte in stato di peccato.
I prelati e le gerarchie ecclesiali
si rendono conto che il credente è costantemente angosciato dal rischio, dopo
una vita di rinunce e penitenze, di finire per una singola condotta peccaminosa
alla pena del supplizio eterno nel luogo dove l’anima straziata non muore e il
fuoco non si estingue. L’interpretazione delle Scritture che porta, fin dal
1100, a postulare l’esistenza del Purgatorio quale luogo in cui poter
completare l’espiazione dei peccati dopo la morte e infine giungere all’unione
con Dio[7], aveva in parte ridotto il terrore della perdizione, ma l’incapacità di
evitare il peccato o di peccare senza rendersene conto continuava a costituire
una minaccia.
La Chiesa elabora, allora,
una speciale pedagogia a scopo preventivo: avendo compreso che il peccato si
radica in una forza – che ancora non sapevano attribuire a memorie attive di “stati
funzionali a ricompensa” del cervello – ma che convenzionalmente già si
chiamava vizio, definisce sette vizi capitali da combattere sul
nascere: superbia, avarizia, ira, invidia, lussuria,
gola e accidia.
Inizialmente questi vizi sono
descritti come stati dello spirito prossimi al peccato, condizioni alimentate
dal potere di seduzione di Satana sul cuore dell’uomo, in grado di indurre a
contravvenire agli espliciti divieti dei dieci comandamenti mosaici o al “comandamento
nuovo” che li include tutti[8]. Ad esempio, la lussuria, ossia l’indulgere nello stato mentale di
desiderio erotico, può far commettere adulterio o desiderare la donna d’altri;
l’avarizia e la gola possono indurre a soddisfare desideri del superfluo,
trascurando i poveri nel loro bisogno del necessario; l’ira può indurre all’omicidio
materiale o simbolico nell’odio degli altri; l’invidia può portare a desiderare
gli oggetti o la condizione di vita altrui; la superbia può portare a disobbedienza,
ossia a non sottomettersi a Dio, come vuole il primo comandamento; stesso
peccato può essere indotto dall’accidia, l’oziosa pigrizia all’origine delle maggiori
omissioni.
Col tempo, però, i vizi capitali
sono considerati essi stessi peccato, tanto da passare alla storia come i sette
peccati mortali.
Ma sono proprio le ragioni
che determinano che qualcosa costituisca peccato ad essere oggetto di una
profonda analisi teologica, che prende avvio dall’innocenza degli ignoranti e
dalla colpevolezza di coloro che hanno conosciuto la rivelazione, di cui si parla
nel Vangelo. Alcuni ragionamenti, che saranno in parte ripresi nel corso della
storia dai giuristi che hanno definito i requisiti di imputabilità dei codici
penali, escludono definitivamente la colpa nelle persone incapaci di intendere
e volere e per danni procurati accidentalmente in condizioni di completa
involontarietà. Perché sussista il peccato è necessaria l’intenzione al male
del peccatore, ossia una volontà in contrasto con quella di Dio.
In proposito, così si esprime Le Goff: “Una grande svolta nella storia delle
idee, dei valori e della mentalità ha luogo nella cristianità del XII-XIII
secolo. Una nuova concezione del peccato, commisurato più all’intenzione
del peccatore che ai suoi atti, conduce a una revisione delle pratiche della confessione
e alla ricerca dell’ammissione di colpa”[9].
Soprattutto, la Chiesa
comprende la necessità di assistere i fedeli nei problemi morali e di guidarli
nell’esame di coscienza. La confessione, che fino ad allora era consistita nel
proclamare ad alta voce dinanzi all’assemblea le proprie trasgressioni, entra
nel segreto, perché non sono i fratelli a dover giudicare, ma il Testimone di
ogni coscienza, ossia il Padre che vede e sente nel segreto, per il tramite dei
sacerdoti, eredi degli Apostoli, ai quali Gesù Cristo aveva concesso il potere
di perdonare i peccati. Come l’adultera, il centurione, Zaccheo e tanti altri
menzionati nei quatto vangeli, ogni peccatore pentito poteva essere perdonato e
ritornare nella Grazia divina.
Nel 1215 il IV Concilio Lateranense
stabilisce l’obbligo di precetto per tutti i battezzati di una dichiarazione
dei propri peccati almeno una volta l’anno, nella forma della confessione
individuale e segreta, detta «a orecchio», rivolta a un confessore che, a sua volta,
si è sottoposto a un esame di coscienza ed è vincolato dall’obbligo assoluto di
non rivelare quanto ha appreso nella circostanza sacramentale[10].
Che le prime comunità cristiane
in terra italica e, più in generale, nell’area del Mediterraneo e dell’Europa
continentale siano state luogo di virtù morali sembra un fatto acclarato e
confermato dall’opinione altissima che ne aveva Galeno di Pergamo, il celebre
medico agnostico che scrisse della sua ammirazione e del suo stupore nell’incontrare
e conoscere persone in grado di interpretare quotidianamente valori di
oblazione assoluta, quali erano i seguaci del Messia ebraico risorto dai morti.
Che la Chiesa medievale non sia stata un luogo di virtù sempre e in ogni suo
membro e istituzione, sembra altrettanto indiscutibile, se solo si considerano
i travagli secolari, i conflitti di potere interni, il sorgere di antipapi, i
delitti dell’Inquisizione, la simonia, la compravendita di indulgenze e i tanti
episodi poco edificanti tramandati dalla storia. Tuttavia, le componenti di sana
e profonda spiritualità, anche nei periodi più bui, continuano a sviluppare una
cultura dei valori contribuendo, solo dove e quando riescono ad arrivare, allo
sviluppo della civiltà.
La complicatissima realtà
medievale, fatta di tante isole giustapposte ma spesso profondamente diverse
tra loro, tanto da rendere arduo se non impossibile un giudizio complessivo,
non conobbe l’idea di progresso nel senso moderno del vocabolo. Quando
Francesco Petrarca, la cui statura culturale è cresciuta agli occhi degli storici
con la scoperta di manoscritti che rivelano la sua identità di filosofo, coniò
con un’accezione dispregiativa il termine “Medioevo” per il suo tempo, espresse
la consapevolezza storica di vivere in un’epoca di complessiva involuzione e
stasi, e lasciò in eredità questo severo giudizio che ancora oggi si apprende
sui banchi di scuola. In realtà, già da decenni i medievalisti hanno desunto,
dall’esame accurato dei documenti e dall’interpretazione non preconcetta di una
miriade di fatti storici, che tutto il Medioevo può essere descritto come una
serie di Rinascimenti, spesso costituiti da locali sviluppi di genio e
creatività occultati sotto la maschera di un ritorno all’antichità classica, e
poi rientrati nell’inerzia conformistica di costumi arretrati.
Anche nella diacronia,
alcuni storici parlano di Rinascimento Carolingio (VIII-IX secolo),
Rinascimento del X secolo, Rinascimento del XII secolo e, infine, del «grande»
Rinascimento che nasce in Firenze, trovando piena espressione nel 1492, anno in
cui muore Lorenzo de’ Medici, Colombo scopre l’America e convenzionalmente ha
inizio l’Età Moderna. In tutto il mondo, il «vero» Rinascimento è
indissolubilmente legato ai nomi di Leonardo da Vinci, Michelangelo Buonarroti
e Raffaello Sanzio, ineguagliabili artisti che, adoperando il principale mezzo
dell’epoca di comunicazione di massa legato all’immagine, ossia la pittura, rappresentano
in modo sublime i valori cristiani, in una forma grandiosa che ancora oggi
suscita ammirazione, stupore e piacere estetico.
Ma questo straordinario
periodo, che per dinamismo artistico e culturale si contrappone nettamente all’Era
di mezzo, secondo Jacques Le Goff in Italia si annuncia già nel Duecento e vi
appartiene Petrarca a metà del Trecento.
Le immagini rinascimentali
possono essere considerate una sorta di espressione trionfale di quella che –
secondo la maggioranza dei medievalisti – era l’ossessione per il simbolico che
aveva attraversato tutto il Medioevo, soprattutto a motivo di una vita
concepita in funzione di un al di là che poteva entrare nell’attualità
fenomenica solo nella forma dei simboli, ma anche perché l’evento
soprannaturale che aveva segnato l’ingresso di Dio nella storia umana, attraverso
l’incarnazione di Gesù Cristo, apparteneva a un lontano passato che richiedeva di
essere rappresentato.
Dunque, se il luogo
della virtù viene astratto dalla realtà materiale nella concezione cristiana,
come avevamo osservato in precedenza citando la risposta di Gesù alla Samaritana
che chiede se il luogo di elezione della preghiera debba essere il monte o il
tempio[11], si può notare che non tanto diversa è la sorte del tempo della
virtù, perché non deriva da una contingenza attuale, ma sembra dipendere dalla
conservazione del passato, sia nella tradizione delle scritture sacre, sia nei
riti. Osserva Le Goff: “Il cristianesimo era una religione della memoria: il
suo atto liturgico centrale era la ripetizione dell’Ultima Cena, il sacrificio
che viene rinnovato «in memoria» del Cristo”[12].
Ma questa osservazione non
deve ingannarci circa la reale portata del vissuto spirituale, perché il
cristianesimo è un ritorno alla sostanza della fede in opposizione al
formalismo rituale farisaico: “Non è infatti la circoncisione che conta, né la
non circoncisione, ma l’essere nuova creatura”[13], spiega San Paolo, secondo quella ratio che pervade tutto il
Vangelo e sconfessa il formalismo ottuso che portava a proibire di sabato anche
la guarigione degli ammalati. L’essenza della vita cristiana non è nella
memoria del rito – che serve a mantenere vive le ragioni della fede – ma nell’attualità
costantemente rinnovata della conversione, dalla quale origina l’uomo
nuovo, ossia colui che risponde alla chiamata del Redentore, che lo ha
riscattato a prezzo del suo sangue, e compie le opere di misericordia, in base alle
quali sarà giudicato, nel fervore delle tre virtù teologali, ossia fede,
speranza e carità; l’ultima delle quali, non intrapsichica, assume un ruolo
decisivo per la salvezza, compiendo il valore delle altre due. Infatti, “senza
la carità – dice San Paolo – sarei bronzo sonante”.
Dunque, la virtù cristiana, anche
se si fonda sulla rimemorazione nel presente del sacrificio di Cristo per la redenzione
di tutti, non è una questione di memoria ma di atti concreti che materializzano
la speranza[14].
Gli autori
del testo ringraziano il presidente Giuseppe Perrella che
ha espresso in maniera dettagliata e documentata quanto è esposto in sintesi
nel presente scritto, e invitano alla
lettura degli articoli
di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE
E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Lorenzo L.
Borgia & Monica Lanfredini
BM&L-01 febbraio 2020
________________________________________________________________________________
La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International
Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze,
Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come
organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Pubblicato nelle “Note e Notizie” del 14 dicembre
2019 e integrato da alcuni rilevanti riferimenti storici nelle “Notule” pubblicate
con le “Note e Notizie” del 25 gennaio 2020.
[2] Non meno di quanto un bambino
dia per scontata la propria casa nell’organizzazione della vita familiare.
[3] È il “mondo” inteso come la
comunità umana non sottomessa a Dio, che idolatra il profitto e il vantaggio
egoistico, e sviluppa strutture gerarchiche basate sul valore del denaro e su
logiche di potere dell’uomo sull’uomo. Come si legge nel Vangelo, il principe
di questo mondo è Satana.
[4] Note e Notizie 14-12-19 Il
tempo e il luogo delle virtù.
[5] Jacques Le Goff, Il Medioevo –
Alle origini dell’identità europea, p. 111, Editori Laterza, Roma-Bari
2002. I corsivi nel testo sono di Le Goff.
[6] “… Il Padre tuo, che vede nel
segreto, ti ricompenserà.” (Mt 6, 4).
[7] Cfr. Jacques Le Goff, La
nascita del Purgatorio, Einaudi, Torino 2006. Lo storico francese, che fa risalire
la concezione alla cultura sviluppata in seno alla borghesia mercantile,
sostiene che il cambiamento della topologia dell’aldilà abbia rappresentato una
vera rivoluzione mentale collettiva, che cambiò la vita dei cittadini europei.
[8] “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli
uni gli altri come io vi ho amati” (Gv 15, 12).
[9]
Jacques Le Goff, Il Medioevo
– Alle origini dell’identità europea, p. 110, Editori Laterza, Roma-Bari
2002. I corsivi nel testo sono di Le Goff.
[10] A questo lodevole progresso nell’ispirazione
spirituale della dottrina, che ha conseguenza nella ricerca della confessione
nella pratica giudiziaria, fece seguito una “patologia del sistema” con l’istituzione
poco cristiana (solo Cristo è giudice dell’uomo) del Tribunale dell’Inquisizione,
allo scopo di combattere l’eresia. Come è noto i membri di tale tribunale
fecero ricorso alla tortura, uno “strumento di Satana”, per ottenere le
confessioni.
[11] “…Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il
Padre in spirito e verità…” (Gv. 4), ossia: non è importante il luogo
materiale, ma la sede psichica (spirito) di un’adorazione sentita e sincera (verità)
e non formalmente rituale.
[12] Jacques Le Goff, Il Medioevo –
Alle origini dell’identità europea, p. 108.
[13] Gal 6,
15.
[14] Secondo la definizione di fede
cara al nostro presidente.